Elizabeth

Elizabeth

Domenica scorsa Elizabeth mi ha portato del pesce, dei pomodori e delle cipolle. Un presente, come mi ha detto lei porgendomi la busta bucata. Gli incontri domenicali sono diventati una consuetudine dalla prima volta, senza neanche parlarne lo abbiamo dato per scontato entrambi. E non parliamo molto neanche d’altro, camminiamo e ci fermiamo per ore a guardare il mare, la costa e la barriera corallina che da lontano possiamo soltanto immaginare dalla spuma bianca delle onde sul filo dell’orizzonte. Oltre c’è l’oceano che precipita. Non mi sono soffermato a pensare che Elizabeth non è come tutti gli altri, e proprio tutti, incontrati finora. Devo averlo dato per scontato, come se da qualche parte della memoria fosse riemerso un modo di fare già conosciuto, ciò che probabilmente devo aver considerato normale, non so bene, non riesco a distaccarmene a sufficienza per guardarlo da fuori e descriverlo, connotarlo, come per qualcosa che vedo ma che non mi appartiene. Il modo di Elizabeth deve appartenermi. Deve essere per questo che i nostri lunghi silenzi non ci imbarazzano, un commento di tanto in tanto, tanto per sentirsi ripetere ad alta voce qualcosa che sta passando per la mente per conto suo. Elizabeth ha un piccolo business in proprio, rivende abiti di seconda mano. Li compra a Kongowea, l’enorme mercato di Mombasa che non ho ancora visitato ma che già dal bordo sulla strada si intuisce come un formicaio stipato di gente e baracche e voci e odori di femmine e di maschi, di sudori e polvere, di profumi forti e di acqua nera stagnante, di melma. Dentro ci arrivano i matatus, pulmini da quattordici posti come riporta la scritta su ogni fianco. Elizabeth fa rifornimento all’occorrenza, di solito all’inizio del mese, alla fine la gente riscuote, non tutti, e gli affari per lei vanno meglio. I vestiti che rivende arrivano dall’estero, in gran parte dai paesi d’Europa, Elizabeth ha imparato a distinguere, ci ha fatto l’occhio e sa quali si possono rivendere più facilmente. Perciò non compra i migliori, costano di più e farebbe fatica a piazzarli, il che non vuol dire che non vorrebbe, il suo sogno è di riuscire a portare quei vestiti nel suo villaggio, che si trova a masciambani, che significa in culo al mondo, e venderli ai prezzi di quelli che compra ora, perché dice che così ne venderebbe di più, alzare i prezzi sarebbe controproducente per lei e per gli altri. A masciambani ci sono andato un pomeriggio, è davvero a masciambani, almeno in quanto a tempo per arrivarci, non è lontano da qui, sì e no una decina di chilometri, ma ci ho messo più di due ore perché bisogna cambiare matatu a Mtuapa e un matatu da Mtuapa non parte finché non è pieno; il mototaxi è too expensive, a piedi è a masciambani. Questo masciambani si chiama Kikambala, una zona indefinita come tutte le zone senza un recinto, senza mura, senza un segnale, ma che tutti sanno dove è dentro e dove è fuori. Poco più su della spiaggia, il mare non si vede, la vegetazione è tanta, gli alberi sono alti e folti, il mais è una pianta sempreverde più alta di un uomo. Chi ha fatto fortuna ha una casa come una di queste ville, con il muro di cinta e le guardie, almeno due ma più ne hai più fortuna hai fatto, e non so se i maleintenzionati siano nel dubbio amletico di provare una con molte guardie, perché magari è uno che ci tiene a dire quanta ne ha fatta, o una con poche perché magari è solo una strategia diversiva, per non dare troppo nell’occhio. Ma Elizabeth dice che il posto è safe, sicuro, qui puoi camminare anche di notte, al buio se non c’è la luna, perché di case illuminate a corrente ce ne sono poche e anche quelle, come il mare, sono al di là della vegetazione. Elizabeth non ha paura di farsi tutta questa strada a piedi da sola, di notte, dalla main road, quella che porta verso nord, quella che passa per Malindi, l’unica. Io invece del buio ho sempre avuto paura, troppa fantasia, uno dovrebbe limitarsi a quello che vede ma si sa che la fantasia fa vedere cose che magari non ci sono, ma di questo buio non è per questo. È che a sentirsi ripetere da chiunque, e anche Elizabeth si raccomanda appena può, di stare attento a tutti, non importa chi, perché chiunque è un criminale potenziale, alla fine non sai più di chi fidarti e se ce ne sia qualcuno, dai e dai il sospetto che qualche ragione queste voci debbano pure averla ti viene, e ti viene anche la paura. Avere paura stanca, perché tiri a guardare dritto, non hai più tempo per fermarti a chiacchierare con nessuno, cominci a sentire il fiato sul collo, magari sudi anche, che già fa caldo. E dopo un po’ o te ne vai o semplicemente accetti il rischio, sperando nella tua buona fede nel genere umano. Alla fermata sulla main road ciclo e moto taxi aspettano i matatus. Cosa mi può mai capitare in pieno giorno? Tra l’uno e l’altro scelgo istintivamente il ciclo, a volte mi prende una certa avversione per la tecnologia, non ho fretta e pagare qualcuno che fatica è sempre meglio. Che poi anche qui uno che fatica di più è pagato meno, anche qui non si paga la fatica ma quello che dalla sua fatica ne viene a te. Di lui ho scordato il nome, troppi da tenere a mente e in genere me li scrivo ma dal sedile del passeggero se comincio a frugare nella borsa va a finire che lo sbilancio e non ho voglia di scorticarmi i ginocchi, come quando eravamo molto più giovani, e neanche i suoi. Porta su e giù gente del posto e i turisti che capitano, a dieci centesimi meno del moto taxi, per forza, è più lento, da cinque anni, da quando è sceso dall’up country a cercare un lavoro. In un giorno fa in media duecento scilinghi, due euro, tre viaggi ad andare e tre a tornare perché una corsa ne costa trenta. Dunque seimila scilinghi in un mese, sessanta euro, tolti quelli per l’affitto del posto per dormire, duemila scilinghi al mese, e tolti quelli per mangiare, una volta al giorno, cinquanta scilinghi, che fa in tutto tremilacinquecento, ne restano duemilacinquecento, venticinque euro; ne manda duemila alla famiglia su nell’up country e cinquecento per sé. Non beve e non fuma ma pure così si risparmia poco. E quando arriverà a comprarsi una motocicletta che con quella gli affari andrebbero meglio, come andavano quando di motociclette non ce n’erano? Gli pago tre volte e più il prezzo che chiede ma non l’aiuterà. A pensarci anche solo un poco appena uno corre il rischio di arrivare a concludere che il capitalismo è sbagliato, che magari diceva bene Willie di Linguère, in Senegal, che chi lo ha inventato lo ha pensato proprio bene. Dice di avere cinquant’anni e lo dice con orgoglio perché in effetti ne dimostra trenta, come dice giustamente anche lui, gambe e torace che sembrano ebano nero tirato a lucido; dice che è per via di questo continuo esercizio, ci credo, altro che palestra. La casa di Elizabeth non è ancora finita, non è sua, in affitto anche lei come tutti attorno; senza corrente, l’hanno tagliata perché il padrone di casa non pagava la bolletta. La casa di Elizabeth è una stanza pulitissima, con tutto quello che serve: un fornello a gas, un letto, un tavolino e due sedie, una per sé ed una per gli ospiti, uno alla volta. Nella stanza accanto vive Mariame, sposata da poco e con un bambino legato alla schiena con due occhi sgranati a guardarmi, si spaventa e attacca a piangere a lacrimoni. È perché è il primo muzungu, uno bianco, che vede, dice Mariame che se la ride e lo consola. Del loro swahili capisco che Mariame quasi la rimprovera per non avermi ancora offerto niente, ma Elizabeth è tranquilla, la lascia dire, aspetta che finisca, sorridendo appena, poi si alza, si scusa, va e torna con un piatto enorme di banane tagliate a metà e arance a spicchi. E io che sono arrivato senza portare niente quasi quasi mi vergogno. Elisabeth l’ho conosciuta sulla strada per la spiaggia, il giorno che hanno rubato il terzo laptop dall’albergo in cui stavo per qualche giorno, in attesa che questa casa fosse pronta. Non c’è stato bisogno di presentazioni, dobbiamo aver trovato naturale passare tutto il pomeriggio a guardare il mare, seduti sui gradini di un albergo proprio in riva, perché qui il pomeriggio tardi l’acqua sale a vista d’occhio, arriva da lontano, e sulla spiaggia non si può più stare. Prima di arrivare qui lavorava a Nairobi, come infermiera in una clinica privata, il lavoro era migliore di questo, le piaceva di più ed era pagata bene. Poi la promessa di andare a lavorare in Germania come badante presso una famiglia e la delusione del fallimento, ma ormai il lavoro da infermiera lo aveva lasciato e a tornare indietro si vergognava, anche se alla clinica erano dispiaciuti e l’avrebbero ripresa volentieri, perché era brava e tutti le volevano bene per questo. Ma la vita è davanti dice lei, quel che è fatto è fatto, anche se la digestione è durata parecchio, qualche mese prima di accettare di dover restare qui, perché quelle che in Germania sono riuscite ad andare ora mandano tanti soldi alle famiglie e sono contente del loro lavoro. E allora bisognava inventare qualcos’altro, dice, non tornare indietro, qui c’era un parente che l’ha ospitata per qualche settimana, giusto il tempo di organizzarsi questo business e trovare una casa, lassù a masciambani. Che poi lassù, anche se a masciambani, è proprio un bel posto, dopo il lavoro c’è ancora un’ora di luce e fai in tempo ad arrivare al mare a guardare l’acqua che sale. Il suo negozio l’ho visto, una baracca di steli di foglie di banana e tetto di quelle di noci di cocco, due metri per due ma dentro ci tiene lo stock, la vendita è fuori, sulla strada. Dice che è un buon lavoro e lavorando duro uno non ha bisogno di chiedere niente a nessuno, perché molti chiedono soldi anche se non ne hanno proprio bisogno, ma a lei questo non piace, dice che così uno non impara mai un lavoro, che così uno resta sempre dipendente da qualcun altro e che non costruisce niente; è perché credono che la vita sia fatta solo di oggi e di come arrivare a domani, e domani si ricomincia da dove si è ricominciato oggi. L’ascolto senza avere neanche io la forza di pensare oltre, non ho ancora sciolto certi nodi alla gola, l’imbarazzo che ancora provo a sentirmi chiedere un aiuto, denaro, ogni giorno più di una volta, non importa dove, per strada o da amici dichiarati e presunti. Provo ancora lo stesso disagio a rispondere e a credere che no, che non sia questa la soluzione e al tempo stesso a non averne un’altra da proporre per l’immediato, perché magari una per l’immediato semplicemente non può esistere. E mentre Elizabeth parla io quasi chiudo le orecchie, per non sentirne parlare, quasi a rimandare a quando non avrò lo stomaco così contratto, sperando inconsapevolmente di trovare una ragione che dia pace a me e di questo quasi mi vergogno. Elizabeth mi raccomanda di non darne a nessuno, perché io sono muzungu e tutti credono che i wazungu (plurale di muzungu) abbiano tanti soldi e perciò possano darne un po’ a loro e perciò che loro abbiano ragione a chiederne. Ed io glielo prometto e lo prometto anche a me.
La sera la luna era enorme sopra i cocchi alti, splendente più di una lampione pubblico, Elizabeth ha chiamato un suo amico che ha il moto taxi, mi ha portato alla fermata sulla main road, e si è raccomandata di telefonare appena arrivato a casa, per andare a letto tranquilla. Elizabeth è bassa, tarchiata e per niente attraente. Con Elizabeth ti senti a casa. Elizabeth è bellissima.

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